sabato 29 marzo 2008

Se il nonno dà i numeri...

A un mese dall’evento ‘Dottore, se il nonno dà i numeri io cosa faccio?’ continuiamo a dare i numeri: quasi duecentocinquanta persone hanno assistito alle due serate e, al momento, abbiamo una cinquantina di richieste dei dvd con la registrazione degli interventi!
A noi resta la grande soddisfazione di aver colpito nel segno e soprattutto che ci fosse qualcosa di più da dire sulle malattie degenerative e soprattutto sul modo di affrontarle.
Importantissimo è stato il confronto nato dal dibattito avvenuto nella seconda parte dell’ultima serata, quando è stata data la possibilità di dialogo fra gli intervenuti e i relatori. E’ stato un dibattito fruttuoso, un confronto di comuni esperienze fra chi assiste e cerca un aiuto per il proprio malato e uno sfogo nella condivisione.
Il momento più intenso è stato toccato quando la relatrice Barbara Navala Jansch, esperta in Costellazioni Familiari, ha sollevato il problema del senso di colpa e di come sia necessario, quando un famigliare viene colpito dalla degenerazione cognitiva, rispettare il ruolo di chi è genitore e di chi è figlio. Confondere i ruoli e diventare genitori di chi ci ha generato – sostiene Jansch – porta squilibrio e malessere in tutto l’ambito familiare. Onorare i nostri anziani non può prescindere dall’osservare anche il nostro ruolo di figli e non può esimerci dalla responsabilità del nostro disegno di vita.
La reazione del pubblico non si è fatta attendere: all’uditore che ha obiettato questa tesi, rivendicando il dovere fino al sacrificio di sé, si è opposta la voce emozionata di una signora che ha assistito prima la madre e poi il padre per lunghi anni, annullando se stessa e proprio per questo entrando in grave conflitto con gli altri membri della famiglia.
Siamo convinti che sia, questo, un discorso da continuare proprio come è cominciato in queste due sere: sulla traccia dell’emozione, del guardarsi dentro ma anche riconoscersi nell’altro, nel rispetto dei vari momenti della vita e dei reciproci destini.

lunedì 24 marzo 2008

Per cosa combatte il Tibet

ENZO BIANCHI (da La Stampa, 20.03.2008)

[...]Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste «qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire», manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata. In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo. Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della «forza» della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del «genocidio culturale» denunciato dal Dalai Lama. Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
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domenica 9 marzo 2008

Pubblichiamo la mail di Lucia Biondelli

9 marzo 2008
Cari tutti, vi mando per conoscenza (e perché la diffondiate il più possibile) la traduzione di una dichiarazione rilasciata da Husam Hamdouna, direttore dell’associazione Remedial Education Centre (REC) di Jabalia (Striscia di Gaza) - che lavora/è partner di EducAid dal 2002 - in seguito all’occupazione da parte delle forze militari israeliane della sede principale dell’associazione (situata nell’area Zemo, nel Nord della Striscia di Gaza), un edificio che ospita scuola, asilo, uffici amministrativi, magazzino e garage.
Le forze armate israeliane hanno utilizzato l’edificio come base militare durante gli attacchi portati in quell’area per contrastare il lancio di razzi da parte della resistenza palestinese verso il territorio israeliano.
Nel corso dell’occupazione sono stati danneggiati arredi, attrezzature, computer e mezzi di trasporto. L’occupazione è avvenuta nel corso di una vasta operazione militare che si è protratta per alcuni giorni e ha prodotto più di cento vittime tra la popolazione di Gaza.
Lucia Biondelli
P.S. Husam Hamdouna è anche il fratello maggiore di Yousef, l’educatore palestinese che sta facendo il tirocinio al Ceis [Centro Educativo Italo-Svizzero, NdE] dal febbraio 2007. Ci sentiamo ancor più coinvolti perché conosciamo bene lo stile di lavoro del R.E.C e conosciamo alcune delle persone che vi lavorano con passione e grande intelligenza, come potete vedere dal comunicato sotto riportato.
Referente: Alessandro Latini EducAid Onlus Via Vezia 2 - Rimini 0541/28022
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Questa è la “fotografia” dettagliata della situazione della sede del R.E.C. ora che le forze armate israeliane si sono ritirate dall’area come descritta da Husam Hamdouna:
1. Il 1 Marzo 2008 le forze militari israeliane hanno fatto ingresso nella sede dell’associazione sfondando con la forza tutti gli ingressi e le porte interne dell’edificio.
2. L’esercito israeliano ha utilizzato la sede dell’associazione come base militare per gestire le proprie operazioni nell’area; utilizzando tale sede hanno ucciso 2 cittadini.
3. Le truppe israeliane hanno causato gravi danni all’associazione, distruggendo arredi, attrezzature, documentazione.
4. Una parte delle attrezzature, incluso il computer principale che conteneva la documentazione dell’intero lavoro dell’associazione, è stata rubata, insieme alla somma di 185 shekel (pari a circa 33 euro, NdT) e a 2 passaporti di proprietà di impiegati dell’associazione
5. I militari israeliani hanno lasciato 2 messaggi scritti sulle lavagne delle classi della scuola. Il primo recita “we are very sorry” (“siamo molto spiacenti”), il secondo “hello kids we are very sorry for this mess” (“salve bambini siamo molto spiacenti per questo caos/casino/confusione/bordello”)
I due messaggi chiariscono che i militari sapevano bene che si tratta di un luogo dedicato ai bambini; nonostante questo hanno operato gravi distruzioni.
Da parte nostra ci chiediamo quale sia il motivo di una tale devastazione, dato che si suppone che l’esercito israeliano sia intervenuto nell’area per fermare il lancio di razzi.
Facciamo notare che nel corso delle ultime operazioni 124 persone sono state uccise e 250 ferite, di cui solamente 11 appartenenti alla resistenza armata palestinese e il resto civili. Vale la pena ricordare che persino le infrastrutture dell’area sono state distrutte: rete idrica, rete elettrica, rete telefonica.
Ci chiediamo come sia giustificabile tutto questo.
Non voglio qui soffermarmi a lungo sui danni inflitti da questa operazione all’area di Zemo, dato che esiste un comitato formato dall’associazione che ha il compito di fare una valutazione precisa dei danni, in particolar modo di quelli subiti dalla nostra sede. Voglio richiamare invece la vostra attenzione sul danno maggiore che l’associazione ha subito.
Mi riferisco al messaggio che l’associazione rappresenta attraverso il proprio orientamento pedagogico a favore dell’infanzia: non sosteniamo la violenza, incoraggiamo il dialogo, adottiamo un approccio educativo che promuove i principi dell’amore, della pace, della giustizia, dell’uguaglianza, della democrazia e dei diritti umani.
Sappiamo bene quanto questo sia difficile nell’attuale circolo di violenza in cui ci troviamo a vivere, eppure crediamo che sia possibile.
Crediamo che quando tra due parti si scatenano la guerra e la violenza, dovrebbero vigere leggi e tradizioni da rispettare, che garantiscano la protezione dei civili e delle loro proprietà.
I gravi danni inflitti dall’esercito israeliano alla nostra associazione veicola un messaggio chiaro che poggia sull’accettazione dell’odio reciproco e della legge del più forte.
Questo messaggio è in contrasto con quanto noi insegniamo ogni giorno ai nostri bambini e questa contraddizione ci colpisce e ci indebolisce di fronte ai nostri bambini e di fronte alla nostra comunità.
Per superare questa difficoltà tenteremo con determinazione e responsabilità di tener saldi la nostra motivazione e i nostri sentimenti, alla ricerca della soluzione migliore per i nostri bambini.
Ad esempio abbiamo preso la decisione di non portare i bambini a visitare il centro dove aveva sede il loro asilo, poiché non vogliamo che vedano la devastazione che ha subito, non vogliamo che vedano i loro disegni e i loro giocattoli distrutti. Si tratterebbe di un’ulteriore esperienza negativa che andrebbe a sommarsi a quelle che già ricevono tramite i mezzi di comunicazione.
Crediamo che l’esperienza di vedere i propri giocattoli e i propri disegni distrutti da qualcuno possa generare un sentimento d’odio difficile da contrastare.
Per questo motivo abbiamo deciso di continuare il nostro lavoro con i bambini utilizzando i locali di un altro asilo della zona, giustificando ai bambini questa scelta con la serie di visite ad altri asili, che era già in parte prevista nel programma di questo mese, col fine di incoraggiare le relazioni di amicizia e di buon vicinato nella comunità.
Abbiamo stabilito una serie di incontri con le famiglie dei bambini, per spiegare loro le ragioni di questo cambiamento e il suo significato educativo. Siamo convinti del nostro messaggio e vorremmo che le famiglie adottassero un atteggiamento simile attraverso piccole scelte, che proteggano i loro figli dalle esperienze negative e dalle sofferenze che gli adulti stanno vivendo.
Sappiamo quanto questo sia difficile ma crediamo di non avere alternative al fare la nostra parte per contrastare il circolo della violenza.
Ringraziamo tutti i soggetti locali e internazionali che aiutano l’associazione a portare avanti il proprio messaggio di umanità; nei prossimi giorni produrremo un rapporto dettagliato dei danni subiti dall’associazione, oltre a una valutazione dei bisogni dell’associazione in relazione alle attività da realizzare con i bambini e con le famiglie in questo periodo.
Ci auguriamo che da parte locale e internazionale sia fatta pressione sul governo israeliano per tenere la società civile fuori da ogni tipo di scontro armato, e ci auguriamo altresì di vedere presto una conclusione delle violenze, che contempli il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese nella cornice del diritto internazionale.
Husam Hamdouna
Direttore del Remedial Education Centre - Gaza