ENZO BIANCHI (da La Stampa, 20.03.2008)
[...]Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste «qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire», manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata. In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo. Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo temere il possibile degenerare della «forza» della nonviolenza in azioni violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del «genocidio culturale» denunciato dal Dalai Lama. Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
_
Leggi l'articolo completo qui.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=4297&ID_sezione=&sezione=
Oppure qui.